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"Chut" di Fanny De Chaillé alle Fonderie Limone

Il 29 settembre, alle Fonderie Limone, alle ore 19.30, debutterà in prima nazionale Chut di Fanny de Chaillé, uno spettacolo visionario in cui la danza si muove dentro la scenografia in una sorta di gioco fiabesco e ambiguo in cui si cade, si annaspa, ci si aggrappa a tutto. La performance si iscrive nell’ambito della collaborazione con Espace Malraux - Scène nationale de Chambéry et de la Savoie e con La Francia in Scena.

Chut è la parola francese per dire «sst!» Nel senso di «silenzio, zitti». Ma ha anche lo stesso suono della parola «chute» che significa caduta, cascata, frana o naufragio. Il punto di partenza di questo progetto della coreografa Fanny de Chaillé è un quadro di Caspar David Friedrich, Voyageur au-dessus de la mer de nuages: un uomo solo, di schiena, sulla cima di una montagna innevata, fra vette coperte di nuvole, rivolto verso il vuoto, che evoca presagi tragici.

Ecco allora Grégoire Monsaingeon, danzatore, solo, di fronte a uno spazio smisurato. L’immensità della montagna, la vertigine, l’equilibrio e il disequilibrio, la sensazione di claustrofobia e di silenzio si trasferiscono su una installazione visiva di Nadia Lauro. Nasce un dialogo fra lo spazio che si trasforma continuamente sotto i nostri occhi e sotto i piedi del performer alle prese con gli improvvisi cambi di peso e i problemi di bilanciamento. La sua stabilità è minacciata, la postura si fa precaria e insicura.

Dalle prime immagini romantiche, il registro di Chut si sposta sui toni della farsa e si interroga sulla fragilità umana e quella del nostro tempo proponendo cadute che diventano sempre più assurde, divertenti, epiche. Grégoire Monsaingeon compie movimenti progressivamente più goffi e maldestri. Diventa un po’ come Charlie Chaplin e Buster Keaton, capaci di dare vita a personaggi malinconici e comici che fra inciampi, passi falsi, movimenti buffi reinventano nuovi equilibri nel loro sostanziale disequilibrio, una grammatica dell’essere impacciati e disadattati, in fondo soli e in qualche modo diversi, che evoca tenerezza e la certezza di essere spesso, un po’ tutti, equilibristi o acrobati. Attenti a non inciampare, attenti a non cadere. Attenti a non fare brutta figura. Soprattutto quando qualcuno ci guarda. Col risultato di diventare ancora più maldestri.

Il corpo bascula, oscilla, ondeggia, barcolla, crolla ma lo fa sempre in modo teatrale, artificiale, esagerato, acrobatico. Gioca a farsi male ma le cadute non sono mai di quelle che possono fare male, sono piuttosto quelle che si vedono al cinema: la goffaggine si fa esplicita e colora di modi sgraziati e fallaci l’emozione del cadere che invece è una sensazione fedele al reale e quindi sincera. L’illusione teatrale si nutre anche di cose che sono letteralmente quello che sono. Senza finzione. Senza bisogno di stupire ad ogni costo.


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